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Lapostrofo in radio. Cambiamento! Quale utopia….

Una delle prime puntate di quest’anno l’ho dedicata alla Firenze del Rinascimento, una città fattasi antonomasia, che nelle parole di un articolo comparso sulla Harvard Business Review rappresentava un modello di sviluppo e di innovazione decisamente preferibile a quello tanto acclamato proposto da chi osanna la Silicon Valley. Torniamo alla nostra bella città oggi, in uno degli ultimi Lapostrofi della stagione perché, a quanto pare, l’interesse che essa suscita non conosce sosta. Ad occupasene questa volta sono degli economisti della Banca d’Italia con uno studio che indaga le vicende legate alla mobilità intergenerazionale nel capoluogo toscano dai tempi in cui Cosimo il vecchio non era ancora signore de facto della città per arrivare ai giorni nostri.
I due economisti che hanno condotto lo studio hanno confrontato i dati del catasto fiorentino del 1427, anno della sua inaugurazione, con quelli dell’Agenzia delle Entrate per l’anno 2011, e quello che hanno scoperto è, agli occhi di chi parla, un po’ spiazzante: le famiglie ai vertici della scala sociale sei secoli fa occupano ancora saldamente il proprio posto. Ok, è vero, chi più chi meno, tutti abbiamo in mente l’immagine di Firenze come una città che fatica ad abbandonare il proprio retaggio e preferisce concentrarsi nella conservazione piuttosto che aprirsi al nuovo e al cambiamento, ma in sei secoli all’ombra del Giglio ne sono successe alcune. Invece. Invece i cognomi dei maggiori contribuenti in città per l’anno 2011 sono gli stessi che si trovano alle prime posizioni per quota di ricchezza e benessere posseduta nel 1427. E il caso non pare possa essere derubricato alla semplice omonimia poiché, sempre stando alle osservazioni fatte dagli economisti nella propria ricerca, si può tracciare una linea dinastica anche per quel che riguarda la successione di padre in figlio nell’esercizio di determinate professioni d’élite (avvocato, banchiere, medico, farmacista).

Poi certo, per tirarci almeno un po’ su il morale, nello studio si dicono due cose che dovrebbero relativizzare i risultati: da un lato sostenendo che l’integrale e secolare trasmissione del patrimonio delle maggiori famiglie fiorentine non va trattato come un caso isolato ma piuttosto come una dinamica generalizzabile ed applicabile ad altre città e ad altri paesi; dall’altro che probabilmente l’immobilità sociale si è protratta con grande efficacia, in particolare sino alle porte del ‘900, per poi trovarsi scalfita dalle successive ondate di modernità e mobilità che hanno fatto il proprio ingresso anche tra le mura di Firenze lo scorso secolo.
A parte tutte le speculazioni che si possono fare riguardo alle peculiarità del sistema sociale italiano e fiorentino, con tutte le possibili gradazioni di critica, a me, comunque, questa cosa fa riflettere su quanto il cambiamento sia di per sé una forza che rompe delle vecchie iniquità ma ne produce inevitabilmente delle altre, su come ogni vantaggio competitivo possa inopinatamente trasformarsi in una rendita di posizione, su come l’essenza del cambiamento non sia il raggiungimento di una meta, ma piuttosto lo spirito di ricerca e di miglioramento, ovvero il continuo tendere verso la meta, ma queste idee pure, mi stimolano a contrario il pensiero che nefaste sono state le utopie come quelle sulla città ideale, tanto in voga nel ‘400, che paiono aver forgiato mentalità conservative e restie alle sfide e alle opportunità del (mondo) nuovo.

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