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Lapostrofo in radio. Silicon Valley e la via italiana all’innovazione

Gli anni 80 se li sono presi egocentrici e a loro modo ingenui self-made man; gli anni 90 se li sono spartiti piccoli e medi imprenditori che all’autoreferenzialità hanno sostituito la collaborazione; gli anni 00 se li sono aggiudicati banche e multinazionali (leggi conglomerazioni di furono self-made man); gli anni 10, benché solo poco oltre la metà del loro scorrere, hanno un padrone già assegnato: le startup.

Anche se non siete andati a cercarvi una definizione del termine, la familiarizzazione con esso indotta dai media dovrebbe aver prodotto una inconsapevole idea di cosa si intenda per startup. La traduzione letterale dà già importanti indicazioni: ‘inizia’ e ‘su’ sono parole che indicano una impresa appena avviata il cui scopo principale è quello di crescere relativamente molto e in breve tempo. Se ci fermassimo a queste parole, una grande parte delle imprese nei loro primissimi anni di vita potrebbero fregiarsi del titolo.
Il fatto, però, è che noi il termine lo abbiamo importato, e con esso una categorizzazione implicita che riguarda un determinato fenomeno in un luogo preciso. Sto parlando della Silicon Valley e delle tante società nel campo hi-tech che lì nascono, crescono e falliscono in tranquilla continuità. La startup, in questo caso, non è un’impresa qualunque, ma un’azienda che possiede capitale umano molto qualificato in ambito scientifico i cui prodotti e servizi sono ad alto valore innovativo. Gli esempi di Google, Facebook e WhatsApp rappresentano bene la storia canonica di una o due persone che iniziano un business prima non esistente e ottengono un successo commerciale che si misura in miliardi di euro.

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Come funziona una startup? Si parte da un’idea il cui scopo è quello di soddisfare un bisogno (ad esempio la necessità di avere uno strumento che permetta ricerche in Internet veloci e precise), e si procede alla realizzazione spesso imboccando una strada tra quelle aperte dalle nuove conoscenze e dalle nuove tecnologie (come l’algoritmo o le immagini satellitari usati da Google). Le conoscenze in ambito STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) sono necessarie, ma non bastanti a metter su una start up. Quello che forse è ancor più importante sono le forme prese dalle reti sociali intorno ad uno startupper, ovvero l’ecosistema in cui questi si trova inserito. Come detto la volta scorsa, un ecosistema dell’innovazione è tale quando il contesto da esso dominato si presenta come un luogo in cui la prassi porta alla costante contaminazione delle discipline di cui solitamente ci serviamo per classificare conoscenza e cultura in aree separate; un luogo in cui organismi sociali e individuali collaborano alla creazione di frutti nuovi ed inediti senza un coordinamento esplicito. C’è un aspetto che mi piace sottolineare di un ecosistema siffatto: la legge ivi vigente del ‘bisogna provarci’. Non importa se provando si rischia di fare un gran tonfo, la motivazione che muove uno startupper è tentare, ed eventualmente fallire, per imparare.

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Leggevo non molto tempo fa che in Silicon Valley l’età media di chi è alla guida di una startup è 25 anni – mese più, mese meno. Io, se ci penso, mi sorprendo a ripescare un passo di Bassani contenuto nel Giardino dei Finzi-Contini, che dice: ‘nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare… Capire da vecchi è brutto, molto più brutto’.

 

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