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Lapostrofo in radio. Il senso(re) della vita

Sette di sera. Avete fatto tardi in ufficio e piove. La strada di casa vostra è insolitamente sgombra di auto, ma è il miraggio dei mercoledì pari: il lavaggio. Tocca dunque cercare un posto in una via adiacente. Schivando auto parcheggiate con grande inventiva e astuzia, memori delle multe dello scorso mese, iniziate un pellegrinaggio ligio al codice della strada per trovare un anditino in cui sistemare la vostra macchina. Certo, potrebbe esserci un posto libero proprio nella strada accanto a quella che state percorrendo, ma ogni incrocio è una lotteria, e l’ispirazione non sempre ricompensa le attese di cui viene caricata. Il tempo che con buona probabilità dovrete decurtare dal relax pre prandiale si tramuterà in malumore, e la benzina sprecata in un sovrappiù di inquinamento.

A questo punto, inevitabilmente, esprimerete il vostro disappunto chiedendovi, parola più parola meno: possibile che in un periodo storico segnato dalla continua innovazione tecnologica non si sia trovata una soluzione ad un problema tanto radicato? No che non è possibile, perché la soluzione c’è, è già attiva in diverse città statunitensi e inglesi, e funziona. Il tutto grazie a dei sensori installati sulle strisce di parcheggio che, rilevata la presenza di un’automobile nello stallo di sosta, trasmettono l’informazione ad un’applicazione, la quale, elaborando i dati, avvisa il lieto automobilista sulle relative disponibilità di parcheggio attraverso una comoda mappa.
Ecco uno degli esempi di quel variegato mondo di prodotti tecnologici che vengono in genere ricompresi nella categoria dell’Internet delle cose, ovvero dispositivi dotati di sensori che si connettono con la rete per comunicare informazioni ad altri dispositivi e consentire agli utenti di monitorare o controllare un determinato ambiente. Pare niente, ma le implicazioni di questo settore hanno uno sviluppo potenziale i cui confini sono delimitati solo dalla fantasia.

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Sensori che monitorano l’umidità del terreno e la temperatura, i cui dati sono incrociati con le previsioni del tempo e la stagione, vengono correntemente usati per gestire sistemi di irrigazione dall’impatto ambientale ridotto e capaci di prendersi meglio cura delle coltivazioni; per non parlare delle applicazioni che permettono di comunicare con i termostati di casa accendendo il riscaldamento dal telefono poco prima di rientrare o semafori che, comunicando con le auto, gestiscono il traffico decongestionandone i flussi.
L’internet delle cose è un pezzo del presente e lo sarà sempre di più nel futuro prossimo. Secondo uno studio recente, realizzato dall’Osservatorio dedicato dal Politecnico di Milano all’Internet of Things, il mercato italiano nel 2015 è cresciuto rispetto all’anno precedente del 30% e ha raggiunto un valore di due miliardi di euro. Per un settore tanto promettente, che si trova comunque in una fase di quasi incubazione, è facile prevedere una grande espansione e prospettive future più che rosee – come confermato da molti analisti – ma ci sono degli elementi che inquinano il quadro. Ad esempio, secondo una indagine di non molto tempo fa, circa un terzo dei consumatori interpellati a riguardo, affermava di non sapere cosa fosse l’Internet delle cose, pur possedendo un dispositivo che all’Internet delle cose appartiene. Per esempio, il gps installato su oltre cinque milioni di autoveicoli in Italia che permette di monitorare chilometraggio e altri parametri a scopo assicurativo è un prodotto dell’Internet delle cose, ma non molti se ne danno per intesi. Un paradosso, questo, che sembra figlio di una realtà a mezza strada tra presente e futuro, difficile da definire, ma che è invece già molto concreta e ben definita

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